domenica 17 febbraio 2013

CALTAGIRONE, UN UOMO SOLO AL COMANDO. I POTERI FORTI E L'EDITORE ROMANO CHE FA TREMARE LE GALASSIE DEL NORD

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CALTAGIRONE, UN UOMO SOLO AL COMANDO (PANORAMA)

 

 

giovedì 23 giugno 2005

 

POTERI FORTI: L'EDITORE ROMANO CHE FA TREMARE LE GALASSIE DEL NORD di Paolo Madron 

 

Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco, 62 anni compiuti a marzo. Imprenditore e finanziere, ha una spiccata predilezione per i quotidiani: nella scuderia, «Il Messaggero», «Il Mattino», «Il Corriere Adriatico», «Leggo» e, Benetton permettendo, «Il Gazzettino». Di recente ha avanzato anche una pingue offerta per «La Stampa». POTERI FORTI: L'EDITORE ROMANO CHE FA TREMARE LE GALASSIE DEL NORD di Paolo Madron Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco, 62 anni compiuti a marzo. Imprenditore e finanziere, ha una spiccata predilezione per i quotidiani: nella scuderia, «Il Messaggero», «Il Mattino», «Il Corriere Adriatico», «Leggo» e, Benetton permettendo, «Il Gazzettino». Di recente ha avanzato anche una pingue offerta per «La Stampa». Prima costruttore, poi editore. Non sopporta i «palazzinari» e i salotti buoni, che guarda con distacco forte dei suoi 2 miliardi di liquidità. Con i quali vuol comprare una banca. E La Stampa.Forse Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco, un'idea ce l'ha su tutte queste vicende che squassano il capitalismo nobile, lo stesso che lo ha sempre tenuto ai margini dei suoi salotti, bollandolo come «palazzinaro» e romano de Roma, nato e vissuto in quella che per antonomasia certi considerano capitale dell'ozio e dei maneggi. Pensando così di fargli un dispiacere, quando invece il suo pensiero sulle consorterie con cui i soliti noti hanno legato per decenni i loro destini è noto: puro intrallazzo, dove il tanto decantato «salotto buono» è un paravento che nasconde debolezza e mediocrità dei suoi membri, e dove lui mai ha chiesto di entrare. Però Caltagirone ammette che il pregiudizio è forte, che se avesse fatto come qualche suo concittadino, emigrare al Nord e lasciarsi avvolgere dalla grigia ma laboriosa temperie dei luoghi e delle anime, sarebbe forse andata diversamente. Ma così il Paese non va da nessuna parte e invece la sua idea di capitalismo non contempla che i legami consociativi prevalgano sulla logica dei numeri. Le azioni, insomma, si contano e quando si pesano vuol dire che qualcosa non funziona. Intanto, a 62 anni compiuti in marzo, sta seduto sulla sua montagna di soldi e può permettersi il lusso di guardare dall'alto i salotti buoni che si squagliano come neve al sole. Quando scenderà, sarà solo per comandare, non per fare il vassallo di qualcuno. Insomma, per fare quello che ha sempre fatto, il padrone che alterna il pugno di ferro al guanto di velluto, con una naturale propensione per il primo, che quando picchia lascia il segno. Perché, se non comanda, Caltagirone si stufa presto del giocattolo, come è successo con il Corriere della sera, da cui è uscito quatto quatto mentre il nuovo re di denari Stefano Ricucci, quello sì un palazzinaro vero, imperversava. Ricucci chi? A parlarne come di un suo emulo si irrigidisce. La differenza fra i due non sta solo nell'età e nel blasone, ma anche nell'approccio. Uno compra e vende palazzi, l'altro li costruisce. Anzi, costruisce quartieri, città, infrastrutture, progetta agglomerati urbani assecondando la parte visionaria della sua indole.Altro che le scorribande di rapina, compro oggi vendo domani, che gonfiano la bolla creando una ricchezza fittizia. Ma come la mettiamo con i Ricucci boys, i mattonari che stanno con lui nella laboriosa guerra per il controllo della Bnl?Compagni di strada occasionali, gente da prendere per quello che al momento ti può dare, un po' come erano i partiti per Eugenio Cefis: taxi che ti scarrozzano sulla accidentata via del potere. Potere forte il «Calta»? Sì, ma non di quelli che tramano nell'ombra, che muovono uomini e situazioni senza farsi vedere. La forza gli viene da tutta quella liquidità che ne fa uno degli imprenditori più ricchi del Paese, 2 miliardi che possono essere moltiplicati dall'effetto leva del debito dandogli una capacità di fuoco devastante. Altro che patti di sindacato, scatole cinesi, industriali che vogliono governare con percentuali che non superano lo zero virgola. Qui ci sono i soldi, quelli veri. Qui (Vianini, Cementir) si compra per contanti. Caltagirone ha tutti i tratti di un novello Citizen Kane. Del personaggio di Orson Welles condivide il mestiere di editore e la passione per l'arte, ma soprattutto i dubbi, la solitudine e un'ossessione primigenia, la molla che tutto ha fatto partire. In Quarto potere era «Rosebud», magico nome dello slittino che evocava l'infanzia felice del protagonista; qui è l'emulazione per un padre che non c'è stato, che ha conosciuto solo nelle parole della madre che gliel'ha raccontato. Psicoanalisi e affari, impasto esplosivo che fa di lui un imprenditore anomalo, tutto preso a ripercorrere le orme di un padre che non ha conosciuto, fino ad abitarne fisicamente i luoghi della memoria: come la via Barberini, dove ha impiantato l'ufficio e che fu una delle prime a vedere all'opera il padre, che nel 1926 aveva lasciato la Sicilia per Roma. Quarto potere si apre con un piano sequenza su Xanadu, il castello dimora di Kane, dove campeggia un cartello, «Non oltrepassare», che è un invito a trasgredire. Caltagirone è un po' lo stesso: la sua biografia, l'espressione del volto che sembra una maschera calata a nascondere i sentimenti, il non detto sono una sfida a svelarne un segreto da cui, come la marea deposita sulla spiaggia oggetti che racchiudono una storia, di tanto in tanto emergono indizi.Talvolta di paura. Paura che qualcuno torni a privarlo della libertà, come successe ai tempi di Tangentopoli, 13 processi e altrettanti tardivi verdetti di piena assoluzione. O che possa portargli via ciò che ha costruito, ciò che lo rende un protocapitalista che accumula aziende così come fa con le collezioni di monete o di oggetti d'arte. Il protocapitalista Caltagirone deve sentire risuonare dentro di sé echi delle origini familiari, l'ossessione per la «roba» di verghiana memoria, il senso della fatica che si fa per conquistarla e che si è sforzato di insegnare ai tre figli che lavorano con lui senza la patente di «figli di» che, noblesse oblige, passano per banche d'affari o esotici master.Ma protocapitalista non è sinonimo di rozzezza, tutt'altro. E non perché Caltagirone è uno che si diletta di storia antica e ha una passione autentica per l'arte, ma perché coltiva una visione del mondo e un suo progetto paese. E la modernità del capitalismo rifugge clientele e incroci incestuosi. Talvolta a emergere sono indizi di orgoglio, quello che viene dalla consapevolezza dell'aver lasciato una traccia di sé con il rosario delle grandi opere che il gruppo ha costruito in giro per il mondo.Mentre gli altri, e per altri leggasi i milanesi, stanno ancora al plastico o hanno appena messo la prima pietra dei loro avveniristici cantieri. La paura spesso si trasforma in diffidenza e genera solitudine e sindrome da complotto. Caltagirone ha un pugno di collaboratori fidati, molte conoscenze e amici veri che si contano sulle dita di una mano, come Raffaele Ranucci e Paola Severino.In politica è ecumenico quel tanto che basta per abbracciare tutto. Gli piacciono Gianfranco Fini e dall'altra parte Massimo D'Alema e Walter Veltroni.Anche con Gianni Letta ha un ottimo rapporto, ma preferisce non incontrarlo a Palazzo Chigi, perché Silvio Berlusconi è pur sempre quello che ha fatto Milano due, dunque un «concorrente».Per lo stesso motivo, se non c'è feeling con Salvatore Ligresti, ce n'è molto con Cesare Geronzi e Pellegrino Capaldo (che lo ha assistito nell'acquisto del Messaggero), i padri fondatori della Capitalia. Si dice che la voglia di comprare giornali gli sia venuta dopo l'esperienza di Mani pulite e guardando alla cronologia sembra vero: prima Il Mattino di Napoli, poi Il Messaggero, preceduto da toccata e fuga sul Tempo. Ma la passione per la carta stampata è cosa che in realtà risale a prima, a quando finanziava Prospettive nel mondo, la rivista diretta dal fanfaniano Giampaolo Cresci, e poi il Sabato quando a occuparsi del giornale c'era Vittorio Sbardella, lo squalo dell'acquario andreottiano. E ancora, sul finire degli anni Ottanta, il salvataggio di Paese Sera, che lacerò le anime belle dell'allora Pci, tutte prese a interrogarsi se il fine giustificasse il ricorso a quel compagno di viaggio, e con lui a quel connubio di calce e martello un po' scomodo per la stretta ortodossia di Botteghe Oscure. Considera i giornali un presidio, anche se si rende conto di quanto ambigua e scivolosa possa essere la definizione. Un presidio contro un'altra deriva giustizialista, un deterrente perché gli spettri di quel passato non tornino.E anche questo fa parte del suo progetto paese. Ma sono anche un business, e che business. Le sue aziende sono prime per redditività, più del Corriere e della Repubblica, e si dice che questo sia anche il frutto di uno spietato controllo sui costi, che quando proliferano sono come un tarlo che corrode i bilanci e mina la competitività. Con i suoi direttori inizialmente ha buoni rapporti.Ma siccome, come direbbero gli inglesi, l'uomo è «demanding», uno che pretende, a volte si guastano. E si guastano senza passare per fasi intermedie, come gli amori che di colpo si tramutano in odi.Magari non c'è una ragione vera, ma una sensazione, un presentimento, una parola di troppo che lo ha irritato. Si racconta che i direttori con lui siano sempre sotto esame, non solo quando scade il mandato (a giugno, cioè adesso, tocca a due di loro, Paolo Gambescia e Mario Orfeo). Per il futuro ha grandi progetti dietro le spalle che intende realizzare. Vuole una banca, e forse finirà per mettersi d'accordo con gli spagnoli del Bilbao che sono la sua controparte in Bnl, rimpiangendo che il suo iniziale progetto di matrimonio con il Montepaschi (fusione della banca romana con la Banca Agricola Mantovana, una controllata del Monte) non abbia convinto quelle teste dure della Fondazione senese. Forse rilancerà la posta come leader del contropatto di sindacato, o alla fine venderà tutto e guarderà altrove, magari al Sanpaolo che potrebbe aprirgli le porte della Stampa: per averla, ha messo sul piatto un'offerta da capogiro, di quelle a cui nonostante l'affezione degli attuali padroni è difficile dire no. Così, dopo aver collezionato giornali da Roma in giù, potrà prendere a tenaglia la capitale morale che gli ha fatto patire troppe discriminazioni attaccando anche da Nord-Est col Gazzettino, dopo aver fatto i conti con il sussulto d'orgoglio dei Benetton che non lo vogliono più mollare. Covando, in cuor suo, la convinzione che saranno i capitalisti gallonati della galassia del Nord ad aver bisogno di lui, non lui di loro. Sempre che quei capitalisti ci siano ancora, che un «Ricucci chi?» nel frattempo non li abbia sbaragliati.

 

 CON CHI VA D'ACCORDO, E CHI NON GLI PIACE

AMICI

Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianfranco Fini, presidente di An Massimo D'Alema, presidente dei Ds Walter Veltroni, sindaco di Roma Cesare Geronzi, presidente Capitalia Emilio Botin, presidente Banco di Santander Fulvio Conti, amministratore delegato Enel Pierluigi Fabrizi, presidente del Monte dei Paschi di Siena 

NEMICI

Luigi Abete, presidente della Bnl Diego Della Valle, imprenditoreE lio Catania, presidente delle Ferrovie Innocenzo Cipolletta, economista, presidente del Sole 24 OrePaolo Panerai, giornalista ed editore Giuseppe Mussari, presidente della fondazione Monte dei Paschi di Siena

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