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mercoledì 20 marzo 2013
lunedì 18 marzo 2013
Anche Caltagirone qualche volta piange
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giovedì 14 marzo 2013
Editoria, profondo rosso per Caltagirone: passivo di 60 milioni nel 2012
Editoria, profondo rosso per Caltagirone: passivo di 60 milioni nel 2012
Il gruppo che possiede Il Messaggero e Il Mattino ha fatto registrare un risultato netto negativo per 60,9 milioni. Fosche anche le prospettive per il futuro: "Il settore resta caratterizzato da una forte incertezza legata soprattutto all'andamento del mercato pubblicitario"
Brutte notizie per il gruppo Caltagirone. Dopo le polemiche che hanno investito il patron Francesco Gaetano Caltagirone legati ai suoi interessi in Puglia e Campania, arrivano i conti relativi al 2012 del comparto editoria, che pubblica, tra gli altri, Il Messaggero e Il Mattino. Il gruppo Caltagirone Editore ha chiuso l'anno passato con un risultato netto negativo di 60,9 milioni, rispetto al passivo di 30 milioni fatto registrare nel 2011. Il cda dell'azienda ha deciso di conseguenza di non procedere alla distribuzione dei dividendi. "L'ulteriore peggioramento del quadro economico generale – ha commentato l'azienda -, caratterizzato da una dinamica recessiva e da notevoli incertezze sulle prospettive della crisi in atto, ha avuto riflessi particolarmente negativi sul settore editoriale. Anche il gruppo Caltagirone Editore ha risentito di tale scenario registrando risultati in flessione su tutte le principali voci del conto economico".
L'azienda non si è sbilanciata sulle prospettive future, ma ha voluto evidenziare il fatto che "il settore resta caratterizzato da una forte incertezza". Di conseguenza il gruppo "proseguirà la rigorosa politica di controllo dei costi attuata". I ricavi del comparto, pari a 195,5 milioni (nel 2011 era stati 226), hanno risentito prevalentemente della contrazione del fatturato pubblicitario. La raccolta "sui quotidiani del gruppo è diminuita del 18,9%", sottolinea l'azienda, mentre "la riduzione della raccolta pubblicitaria sui quotidiani a pagamento del gruppo rispetto al 2011 si è attestata al 15,5%".
In controtendenza si segnala la crescita della raccolta pubblicitaria sui siti Internet delle testate del gruppo con un +37,1% rispetto al precedente esercizio. Per rafforzare la propria posizione nel mercato multimediale il gruppo ha da tempo annunciato di aver aderito, con altre testate italiane, al progetto Edicola Italiana, che dovrebbe costituire il principale servizio nazionale di accesso a contenuti editoriali digitali a pagamento. I ricavi dalla vendita dei quotidiani, invece, "hanno registrato una flessione del 4,9% rispetto all'esercizio 2011″, in uno scenario che – ricorda l'azienda – "continua a caratterizzarsi negativamente per tutte le testate quotidiane".
Il giornalista con la password dei poligrafici
STORIE DI ORDINARIA FOLLIA AL MESSAGGERO
Siamo arrivati al punto che hanno ridotto il numero di copie gratuite disponibili per i dipendenti. Qualche hanno fa hanno cancellato l'invio della copia a domicilio, risparmiando una miseria. Oggi, chi arriva al giornale al turno delle cinque, trova in area di preparazione solo le copie della provincia, e inzia dunque la caccia a quelle con la cronaca di Roma. Come a dire i risparmi di Maria Calzetta...
Sono giorni che i capi redattori centrali sono smarriti dal nuovo divieto di utilizzare il telefono per comunicare con l'operatore di prima pagina, e chiedono "clandestinamente" che il permesso gli venga concesso. Troppo comodo! Per la proprietà l'operatore di Prima pagina non esiste più, e ciò comporta per lei un esubero (in realtà un mezzo esubero, ma siamo sempre ai risparmi di Maria Calzetta), e io dovrei continuare a fare un lavoro di nascosto? Un lavoro che l'azienda non mi riconosce più e per il quale è pronta a licenziarmi o mettermi in cassa integrazione? Ed io lo dovrei continuare a fare?
L'archivio è oggetto di un sabotaggio continuo: si danno precise istruzione ai giornalisti di non servirsene. Perché in questa azienda non si premia chi lavora e lavora tanto e bene. L'efficienza lavorativa non è per loro sinonimo di crescita, ma contrasta alla loro politica montiana di taglio e di risparmio, quella che dovrebbe portare il giornale (e doveva portare il paese) fuori dalla palude, e invece riesce solo a far salire il livello del fango.
Il direttore nuovo segue tutti i diktat dell'azienda: se domani gli verrà detto di prendere una tanica di benzina e un fiammifero e di dare fuoco al palazzo, lui non ci penserà due volte.
Ieri un giornalista si è lamentato perché ha saputo che ci sarà solo un infografico operativo oggi. Si lamentava con noi, come se fosse colpa nostra. Gli è stato risposto che non siamo stati noi a volere esuberi spropositati, non siamo stati noi a dichiarare l'infografico inutile e dannoso. Che ci rivolgesse a Zanardi e Biella per ogni protesta. Ma quello invece continuava a lamentarsi con noi.
Ieri al reparto Macro, non c'era neanche un operatore: chi era di riposo e chi di solidarietà. Ma il macro non doveva essere il fiore all'occhiello del giornale?
Abbiamo speso un sacco di soldi per far rifare il progetto grafico del giornale: risultato? Non piace e lo stiamo rismontando e rifacendo da capo. E i soldi buttati per farlo? Nel bilancio ovviamente: tanto paga Pantalone! (cioé noi)
In anni di Messaggero, non abbiamo mai avuto bisogno di un Direttore Generale: ora, in tempi di crisi, ne abbiamo preso uno che di certo non costa 1.000 euro al mese. Ma il problema sono gli stipendi dei poligrafici, mica il suo.
Forse i nuovi dirigenti sono tutti agenti segreti della concorrenza, che ne so, Repubblica, RCS, Il Tempo, la Stampa, i quali hanno deciso di distruggere il primo giornale di Roma. Deve per forza essere questa la loro missione segreta, perché la rovina del giornale è l'unica cosa che gli sta riuscendo davvero bene. Ma bene, bene, bene...
(Ecco cosa succede a drogarsi con la Tachipirina: ti si obnubila il cervello. E poi dicono che sono le droghe pesanti quelle che fanno male...)
STORIE DI ORDINARIA FOLLIA AL MESSAGGERO
Siamo arrivati al punto che hanno ridotto il numero di copie gratuite disponibili per i dipendenti. Qualche hanno fa hanno cancellato l'invio della copia a domicilio, risparmiando una miseria. Oggi, chi arriva al giornale al turno delle cinque, trova in area di preparazione solo le copie della provincia, e inzia dunque la caccia a quelle con la cronaca di Roma. Come a dire i risparmi di Maria Calzetta...
Sono giorni che i capi redattori centrali sono smarriti dal nuovo divieto di utilizzare il telefono per comunicare con l'operatore di prima pagina, e chiedono "clandestinamente" che il permesso gli venga concesso. Troppo comodo! Per la proprietà l'operatore di Prima pagina non esiste più, e ciò comporta per lei un esubero (in realtà un mezzo esubero, ma siamo sempre ai risparmi di Maria Calzetta), e io dovrei continuare a fare un lavoro di nascosto? Un lavoro che l'azienda non mi riconosce più e per il quale è pronta a licenziarmi o mettermi in cassa integrazione? Ed io lo dovrei continuare a fare?
L'archivio è oggetto di un sabotaggio continuo: si danno precise istruzione ai giornalisti di non servirsene. Perché in questa azienda non si premia chi lavora e lavora tanto e bene. L'efficienza lavorativa non è per loro sinonimo di crescita, ma contrasta alla loro politica montiana di taglio e di risparmio, quella che dovrebbe portare il giornale (e doveva portare il paese) fuori dalla palude, e invece riesce solo a far salire il livello del fango.
Il direttore nuovo segue tutti i diktat dell'azienda: se domani gli verrà detto di prendere una tanica di benzina e un fiammifero e di dare fuoco al palazzo, lui non ci penserà due volte.
Ieri un giornalista si è lamentato perché ha saputo che ci sarà solo un infografico operativo oggi. Si lamentava con noi, come se fosse colpa nostra. Gli è stato risposto che non siamo stati noi a volere esuberi spropositati, non siamo stati noi a dichiarare l'infografico inutile e dannoso. Che ci rivolgesse a Zanardi e Biella per ogni protesta. Ma quello invece continuava a lamentarsi con noi.
Ieri al reparto Macro, non c'era neanche un operatore: chi era di riposo e chi di solidarietà. Ma il macro non doveva essere il fiore all'occhiello del giornale?
Abbiamo speso un sacco di soldi per far rifare il progetto grafico del giornale: risultato? Non piace e lo stiamo rismontando e rifacendo da capo. E i soldi buttati per farlo? Nel bilancio ovviamente: tanto paga Pantalone! (cioé noi)
In anni di Messaggero, non abbiamo mai avuto bisogno di un Direttore Generale: ora, in tempi di crisi, ne abbiamo preso uno che di certo non costa 1.000 euro al mese. Ma il problema sono gli stipendi dei poligrafici, mica il suo.
Forse i nuovi dirigenti sono tutti agenti segreti della concorrenza, che ne so, Repubblica, RCS, Il Tempo, la Stampa, i quali hanno deciso di distruggere il primo giornale di Roma. Deve per forza essere questa la loro missione segreta, perché la rovina del giornale è l'unica cosa che gli sta riuscendo davvero bene. Ma bene, bene, bene...
(Ecco cosa succede a drogarsi con la Tachipirina: ti si obnubila il cervello. E poi dicono che sono le droghe pesanti quelle che fanno male...)
mercoledì 6 marzo 2013
LA LENTA AGONIA DEL MESSAGGERO E' AL SUO PRECIPITOSO CAPITOLO FINALE.
martedì 5 marzo 2013
La nuova ricetta per uscire dalla crisi Dare più valore ai dipendenti
La nuova ricetta per uscire dalla crisi Dare più valore ai dipendenti
Usare la crisi economica come strategia di gestione del personale è una pessima idea. Il rischio: perdere talenti preziosi in tempi di ripresa economica
I datori di lavoro che contano sul fatto che con la crisi i propri dipendenti non abbiano alternative lavorative rischiano di trovarsi in serie difficoltà con la ripresa economica. Questa è la conclusione dello studio di Deloitte "How the great recession changed the talent game?". La ricerca è stata condotta su un campione di aziende di oltre 20 paesi, tra cui l'Italia e mostra come molte aziende continuano a comunicare, più o meno esplicitamente , ai propri dipendenti che devono sentirsi fortunati ad avere un lavoro in tempi di recessione economica, utilizzando strategicamente il pretesto della crisi per imporre condizioni più onerose. Una pessima scelta tattica che potrà avere ripercussioni anche pesanti con la ripresa economica. "E' una scelta miope – afferma l'Amministratore Delegato di Deloitte Consulting S.p.A., Pierluigi Brienza – perché quando l'economia si riprenderà (come sta già in parte avvenendo), queste aziende rischiano uno 'tsunami-curriculum, in cui i dipendenti con un desiderio di cambiare lavoro coglieranno nuove opportunità". I dati forniti dallo studio mostrano come tra i lavoratori intervistati circa uno su tre pensa di lasciare il proprio lavoro attuale e la metà occupa quasi interamente il proprio tempo per cercare un nuovo posto. In più crescono i costi: l'intenzione di un dipendente di cambiare lavoro crea una perdita di produttività perché il lavoratore userà gran parte del proprio tempo alla ricerca di nuovi posti di lavoro. Quindi crescono i costi e l'azienda resta sguarnita di personale professionale prezioso perché ha una profonda conoscenza della storia e delle pratiche interne della società. Quando un lavoratore lascia un'azienda, si devono valutare anche i costi impliciti: perdita di capitale intellettuale, impatto sulle relazioni con i clienti, sulla produttività, sull'esperienza, e gli investimenti in formazione e creazione delle competenze che sono stati già fatti, oltre il costo per l'assunzione di una nuova risorsa. Il costo totale di sostituzione di un singolo dipendente perso può essere fino a tre volte superiore rispetto al salario annuo dello stesso dipendente. Secondo lo studio di Deloitte sbagliano il 44% dei dirigenti pensando che il turnover volontario migliori la redditività permettendo di fare le cose con meno risorse. Chi fa questa scelta rischia di ritrovarsi senza le competenze necessarie a sfruttare i vantaggi di una economia in miglioramento. In realtà per trattenere i talenti esistono anche altri strumenti a disposizione dei datori di lavoro, diversi dalla remunerazione. Lo studio mostra come il supporto e riconoscimento del proprio lavoro da parte della dirigenza siano elementi chiave per trattenere le risorse migliori. Questi gli effetti delle "mode" sulle strategie di gestione del personale importate da oltreoceano che hanno determinato, fino a pochi anni fa, l'eliminazione nelle principali aziende italiane di gran numero di dipendenti con una certa anzianità considerati solo "costosi", sottovalutandone competenze e esperienza. Negli Stati Uniti, oggi, nonostante 15 milioni di lavoratori disoccupati, vi sono ancora circa 2,5 milioni di posti per i quali i datori di lavoro stanno attivamente ricercando delle figure professionali che non sono stati in grado di coprire.
lunedì 4 marzo 2013
Enel: C.Conti; ridurre debito, contenere stipendi manager
Enel: C.Conti; ridurre debito, contenere stipendi manager
ROMA (MF-DJ)--Tagliare il debito, contenere gli stipendi dei manager,
ottimizzare la struttura della societa', limitare le consulenze,
proseguire il lavoro di recupero crediti. Sono queste le linee guida
emerse dalla relazione della Corte dei Conti sulla gestione finanziaria di
Enel per l'esercizio 2010.
La magistratura contabile osserva, a fine 2010, un alto livello di
debito (44,9 mld, -11,7% rispetto al 2009); un costo del personale di 4,9
mld invariato, pur in presenza di una riduzione dell'organico (-78 mila
unita', -3,6% a/a), per un aumento della spesa per stipendi dell'8,7%. Ne
deriva un aumento del costo unitario medio del personale (+1,7% per i
dipendenti in Italia, +8% quello dei dirigenti). Inoltre la Corte dei
Conti segnala un decremento del costo delle consulenze nel 2010 (-45,5%).
Calo del 3,9% nel 2010 anche per i crediti commerciali verso clienti del
gruppo.
Per questo, la Corte dei Conti evidenzia l'esigenza per Enel di
proseguire con sempre maggiore impegno, specie nelle presente fase
economica, nell'opera di riduzione dell'indebitamento del gruppo;
intervenire per contenere il progressivo rilevante aumento dei costi della
retribuzione del personale dirigenziale (top management), nelle sue
componenti variabili, specie a lungo termine; ottimizzare la struttura
della societa', anche allo scopo di contenere il costo del personale
dipendente; stabilizzare la riduzione dei costi per consulenze e
prestazioni professionali, attraverso l'impiego delle risorse interne;
continuare l'azione per il recupero crediti al fine di ottenere introiti
che si rivelano importanti nel quadro dell'indebitamento del Gruppo.
red/ren
(fine)
MF-DJ NEWS
ACEA: PICCOLI AZIONISTI, RIDURRE STIPENDI DEI MANAGER
Venerdì 04 Maggio 2012 19:31
ACEA: PICCOLI AZIONISTI, RIDURRE STIPENDI DEI MANAGER
Scritto da com/sdb(AGENPARL) - Roma, 04 mag - L'Associazione ha proposto, all'Assemblea degli Azionisti Acea, di ridurre del 40% le remunerazioni dei Vertici societari e l'abolizione dei Benefits (auto blu, supercar, carte di credito, etc.), che pesano sui Bilanci aziendali per oltre 8milioni di euro. Il rappresenta del Campidoglio (51% del capoitale), ha letto una nota con cui Alemanno "ha espresso invece voto favorevole alla delibera Acea che "determina le retribuzioni dei Top managers e dei 7 Direttori strategici". Una posizione irresponsabile, rispetto ai sacrifici subiti e richiesti ai lavoratori, ai cittadini e ai pensionati (anche risparmiatori) colpiti dalla crisi. Paolo Gallo, Direttore Generale del Gruppo Acea, usufruisce di una remunerazione da re: 756 mila383 euro, superando di 135mila129,25 euro l'appannaggio di 621mila253 euro assegnato ad Antonio Manganelli, attuale Capo della Polizia. L'Associazione dei piccoli risparmiatori Acea sostiene che "Và rispettato nei fatti l'appello rivolto dal Governo Monti". Ed aggiungono: "segnaliamo alla task-force della Presidenza del Consiglio la deriva anacronistica dell'auto-assegnazione di redditi che superano da 30 a 11,5 volte (da +1000% a +3000%) lo stipendio di un lavoratore Acea (25-30mila euro all'anno). "Ridurre la forbice, oltreché salvaguardare i posti di lavoro e riconquistare la fiducia dei cittadini passa anche per la maggiore trasparenza possibile e il ridimensionamento delle remunerazioni 'elastiche' nelle ex-municipalizzate". . L'operazione trasparenza ha disvelato qualcosa, anche se non tutto. Ma, senza scomodare il presidente degli Stati Uniti Barak Obama, che gode di uno stipendio di 400 mila dollari, circa 300mila euro, è clamoroso che il Direttore della multi utility romana (ma anche delle altre società dei servizi pubblici) incassi il doppio. Per quanto riguarda la Società capitolina, l'ing. Gallo, tra l'altro, non è il solo (anche se forse, nella cifra citata, c'é anche la sua "residenza romana" pagata dall'Acea, sembra che costi intorno agli 800 euro/giorno). A ruota seguono l'Amministratore delegato Marco Staderini, che ha ricevuto 476 mila euro e il Presidente Acea Giancarlo Cremonesi con 408mila euro, quest'ultimo campione anche di doppi incarichi remunerati (Presidenze di Confservizi e della Camera di Commercio; membro di Federutility, dell'Associazione delle Camere di commercio, etc.). In Acea, poi ci sono gli appannaggi di Enrico Laghi, Presidente del Collegio dei Sindaci che -tra questo e quello- nel 2011 ha incamerato 286mila500 euro, di Corrado Gatti con 227mila500 euro e di Alberto Romano che è stato remunerato con 231mila390 euro. E non finisce qui. Ci sono anche i "7 Direttori Strategici": Giovanni Barberis Amministrazione e Finanza; Paolo Zangrillo Personale e organizzazione, (anche lui con abitazione, nei pressi del Quirinale pagata dall'Acea); Stefano Tempesta Corporate Strategy; Andrea Bossola Idrico; Francesco Sperandini Reti; Luciano Piacenti Ambiente; Sergio Agosta Energia. Un drappello che complessivamente tra fisso, premio annuale e benefits 'monetari e non monetari', costa 2milioni di euro. Nel caso specifico, disaggregando il dato, l'appannaggio, ognuno di loro ha ricevuto 289mila500 euro, cioé 11,5 volte lo stipendio dell'operaio- tipo di Acea SpA (+1000%). E' prevista anche una "buona uscita" pari a 36 mensilità dell'intera cifra percepita (basta fare una semplice moltiplicazione x 36). Probabilmente i milioni di euro (pagati) dai cittadini hanno indotto la "casta" a sentirsi "padrona" della potenza economico-sociale espressa dalle bollette e dalla garanzia di "tariffe amministrate", specialmente nel monopolio naturale dell'oro blu. Quale religione prevalga è chiaro: uccidere l'amministrazione avveduta, diligente e rivolta al futuro dei servizi pubblici indispensabili! L'egoismo, il materialismo, il liberismo e un nuovo feudalesimo si è impadronito dell'ex-gioiello del Comune di Roma. La forza del bene acqua, in particolare, sembra che si mutata in prodigio sodi aumenti (annuali), vidimati dalle Strutture Provinciali, che modificando i calcoli hanno prodotto cifre consistenti, anche in assenza di investimenti "contabilmente certi" ovvero modificando le singole voci che vanno a comporre la bolletta dei "servizi idrici integrati" (captazione, trasporto e distribuzione di acqua potabile e depurazione), esaltando -negli ultimi anni- percentualmente gli incassi di ben oltre il 70-80%. Somme peraltro che si sono aggiunte nel "montante fatturato" all'utenza, insieme alle pesanti tasse locali che nel Lazio sono a tre cifre. L'Acqua Pubblica non è mai arrivata ai livelli "fallimentari" raggiunti negli ultimi 20 anni. E malgrado i consistenti accorpamenti non sembra abbia generato i "risparmi di scala" che erano attesi. D'altra parte la moltiplicazione di "società controllate e partecipate" e con esse degli sprechi e dei super costi (non proprio giustificati) hanno alla fine depauperato le aziende ed esasperato i cittadini-utenti. Intanto i "boiardi italici", nominati nelle ex-municipalizzate (quotate in Borsa) dai Sindaci, hanno nascosto, sotto il "Tappeto della Privacy" (e sotto l'ombrello della SpA), i loro appannaggi e i privilegi che si sono attribuiti, malgrado fossero sottoposti al "controllo dell'azionista pubblico di maggioranza (51% del capitale sociale) e fossero incaricati esclusivamente a gestire i "Servizi Pubblici" (non di loro proprietà) e ad amministrare diligentemente le risorse per il "bene comune". Alcuni dati sono ormai sotto gli occhi di tutti. Per ciò occorre una "capovolgimento culturale e amministrativo", specialmente sui "monopoli naturali" o "monopoli strutturali" come nel caso delle reti di distribuzione (quali quelle elettriche), affidate e affidati con concessioni pubbliche pluriennali. Lo stato attuale e gli inesistenti controlli permettono "speculazioni inaccettabili" che in una logica sociale di mercato, inserita nel "sistema attuale di commercio globale", doveva essere costantemente super-controllata e garantita, per sviluppare meccanismi competitivi, libertà d'intrapresa e corretti e "trasparenti investimenti", indirizzati a superare le gravi criticità presenti nel nostro Paese. Insomma, bisogna cambiare pagina per dar vita a una nuova stagione politico-amministrativa che rilanci le piccole imprese, crei maestranze all'altezza e migliaia di posti di lavoro. Ridurre la drammatica "forbice reddituale" che impoverisce le classi medie e i lavoratori è possibile, ma serve un'operazione di largo respiro che metta al centro "impegno e merito" nell'opera di risanamento dei 'servizi essenziali' del nostro Paese, sconvolti da "affidamenti impropri e antieconomici" spalleggiati da una "casta inamovibile" che ha occupato i gangli vitali delle decisioni strategiche. Serve un risanamento etico per coinvolgere gli azionisti-lavoratori ed i piccoli risparmiatori che, dopo i grandi scandali finanziari e le forti speculazioni sull'economia reale, hanno bisogno solo di norme rigide che li tutelino, perché solo così potranno riavere fiducia e dispiegare la voglia (che ancora esiste) di contribuire fattivamente allo sviluppo di cui c'è tanto bisogno. Ci vuole una maggiore trasparenza, che ancora non si riscontra nei corposi bilanci. Non c'é la descrizione dell'abnorme numero di Consigli d'amministrazione del Gruppo, di dirigenti, capi e capetti, spesso privi delle conoscenze relative ai servizi da erogare, ma portati soltanto alla mungitura delle risorse, all'esaltazione degli appalti di bassa qualità per centinaia di milioni di euro, a gonfiare le spese inutili e soffocare i buoni progetti tanto indispensabili quando si tratta di acqua, energia e ambiente.
Crisi RCS: stipendi dei manager ridotti del 10%
Crisi RCS: stipendi dei manager ridotti del 10%
Il vertici del Gruppo editoriale RCS annunciano la decisione di ridursi le retribuzioni per far fronte alla crisi del'azienda.
Il Gruppo RCS ha annunciato il piano di tagli che coinvolgerà non solo le testate e le sedi dell'azienda, ma anche il personale attivo e le retribuzioni dei vertici: l'amministratore delegato Pietro Scott Jovane, come anche il presidente Angelo Provasoli e altri dirigenti hanno reso nota la decisione diridurre gli stipendi del 10%.
=> Leggi perché un manager può guadagnare meno di un impiegato
Una scelta dettata dalla profonda crisi del gruppo editoriale che non esclude i top manager, disposti a ridimensionare la propria busta paga pur di tentare di salvare il salvabile e raggiungere l'obiettivo imposto dall'azienda: risparmiare circa 80 milioni di euro.
Il piano di tagli prevede, infatti, 800 esuberi, di quali 640 in Italia, oltre alla vendita di dieci testate e allo spostamento delle storiche sedi di Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport da via Solferino a Crescenzago.
=> Leggi perché gli stipendi dei dirigenti perdono potere d'acquisto
Se le retribuzioni dei dirigenti subiranno una riduzione del 10%, non è ancora stato specificato quali saranno le divisioni aziendali maggiormente colpite dai licenziamenti, che riguarderanno il personale giornalistico e non. Tutte le criticità del piano sono state messe in evidenza dai rappresentanti sindacali dei dipendenti RCS, che hanno sottolineato i pesanti disagi per i lavoratori a livello europeo.
=> Leggi tutte le news stipendi dei manager
«I tagli prospettati vanno a sommarsi ai pesanti interventi già attuati negli anni passati, soprattutto in Spagna, dove solo nel 2012 si sono persi circa 350 posti di lavoro, con un evidente pericolo per il mantenimento della qualità dell'offerta editoriale oltre che un ulteriore aggravio dei carichi di lavoro.»
Beppe Grillo - Cremona 18 febbraio 2013 - stipendi manager
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Supermanager, Superstipendi - Servizio Pubblico
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"Maurizio Crozza :Stipendi della casta"
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I manager italiani guadagnano troppo?
I manager italiani guadagnano troppo?
di DAVIDE MARIA DE LUCAOgni anno i giornali pubblicano le classifiche dei loro stipendi, ma la cosa difficile è trovare una spiegazione sul perché siano pagati tanto, anche quando le loro società vanno male
Pochi giorni fa Gianni Dragoni ha pubblicato sul Sole 24 Ore la classifica degli stipendi dei top manager (amministratori delegati e presidenti) delle aziende italiane quotate in borsa e dell'andamento delle loro azioni. La crisi ha molto ridotto sia i rendimenti che i valori delle azioni, ma gli stipendi dei top manager sono comunque aumentati. La media delle loro retribuzioni nel 2010 era di 3 milioni di euro. Nel 2011 è passata a 3,5 milioni di euro.
Questo tipo di classifiche viene pubblicato in Italia quasi ogni anno, quando le società quotate in borsa rendono pubblici i loro bilanci, e ogni anno suscitano sempre molte polemiche. Sergio Marchionne, ad esempio, è stato uno dei manager criticati più a lungo perché, secondo alcuni calcoli, guadagna 6.400 volte lo stipendio di un operaio FIAT.
Ma non ci sono soltanto gli stipendi dei manager di livello più alto: secondo una ricerca OCSE, i dirigenti italiani di qualunque livello sono i più pagati di tutto il mondo, con una media di circa 300 mila euro l'anno. Queste classifiche suscitano un'indignazione che per qualche settimana tiene banco negli editoriali e nei dibattiti televisivi, ma lasciano spesso senza risposta la domanda centrale: perché in Italia i manager delle società quotate sono pagati così tanto, anche quando le cose vanno male?
Lo stipendio dei manager
I manager sono, come gli impiegati e gli operai, dei dipendenti delle aziende e i loro stipendi vengono decisi dai proprietari dell'azienda. Come spesso sostengono anche gli stessi autori delle classifiche, si tratta di decisioni prese da privati (i padroni dell'azienda) che decidono quanto pagare i manager con i propri soldi. Tutto legale, anche se possibilmente "immorale". Ma la spiegazione di questi stipendi così alti non risiede soltanto in una maggiore "immoralità" dei proprietari di azienda italiani rispetto a quelli del resto del mondo. C'è un sistema, che causa questi stipendi.
Decidere quanto pagare i propri manager è una questione delicata: stipendi troppo bassi rispetto alla concorrenza rischiano di attirare amministratori non abbastanza qualificati, mentre stipendi troppo alti rischiano di danneggiare gli utili degli azionisti (cioè dei padroni dell'azienda). Per trovare un equilibrio tra questi due estremi, secondo la maggior parte delle ricerche, bisogna che ci sia un efficace controllo da parte degli azionisti di maggioranza combinato con un sistema legale che protegga gli azionisti di minoranza.
Nei paesi anglosassoni questo sistema è garantito dal fatto che gran parte delle grandi imprese sono delle public company, cioè hanno un azionariato molto diffuso, senza un chiaro azionista di maggioranza. Nel mondo tedesco e giapponese, invece, questo sistema è garantito dalla cogestione, cioè la partecipazione di sindacati e operai alla gestione e agli utili dell'azienda. In Italia, invece, il sistema di governance più diffuso è quello del controllo familiare che non solo incentiva a pagare molto i manager, ma spesso crea un incentivo a pagarli anche di più quando le cose vanno male.
Manager in famiglia
Molto spesso nelle aziende familiari non esiste una distinzione tra i proprietari (gli azionisti) e gli amministratori (i manager). I due ruoli sono ricoperti dalle stesse persone, cioè membri della famiglia. In altre parole, la famiglia che controlla l'azienda con il 50,1% delle quote, può decidere in autonomia (senza che gli azionisti di minoranza possano opporsi) di nominare tutto o parte del management pescando dai membri della famiglia stessa. In questa situazione la famiglia può decidere (in quanto azionista) di aumentarsi gli stipendi (in quanto manager).
Questa situazione si è vista spesso nel caso delle stock option, un tipo di incentivo al management. Le stock option funzionano così: i proprietari promettono ai manager un certo numero di azioni della società in cambio del raggiungimento di alcuni obbiettivi industriali. Il manager così non solo viene incentivato a raggiungere l'obiettivo, ma ricevendo in pagamento delle azioni della società viene disincentivato a raggiungere quegli obiettivi con azioni che a breve-medio termine potrebbero danneggiare l'azienda (fare questo abbasserebbe il valore delle azioni, diminuendo il suo premio).
Ma qual è il senso delle stock option quando proprietario e manager sono la stessa persona o appartengono alla stessa famiglia? Un manager deve essere incentivato a svolgere un buon lavoro e deve ricevere dei premi per evitare che passi alla concorrenza. Ma il proprietario dell'azienda non può passare alla concorrenza e dovrebbe già essere incentivato a fare un buon lavoro, poiché dall'andamento dell'azienda dipendono il valore e il rendimento delle azioni dell'azienda che già possiede.
Così, le stock option diventano un sostituto per aumentare i dividendi, o sostituirli nel caso l'azienda stia andando male. Tutto a scapito del restante 49,9% degli azionisti che non appartiene alla famiglia. Si tratta del caso accaduto all'impero della famiglia Ligresti. Quindi, più l'azienda va male (meno utili distribuisce) più i proprietari sono incentivati ad alzarsi lo stipendio nel loro ruolo di manager.
Incentivi alla fedeltà
Non tutte le aziende di proprietà familiare sono guidate dai membri stessi della famiglia. La situazione di un top management completamente in mano ad una famiglia è molto rara, anche perchè le posizioni da occupare e le competenze richieste spesso sono superiori ai numeri e alle risorse di una sola famiglia. Sergio Marchionne guida la FIAT degli Agnelli, Fausto Marchionni guidava la Fonsai della famiglia Ligresti e oltre a Tronchetti Provera, nell'amministrazione di Pirelli siedono molti altri manager. Come mai tutti quanti, nonostante non appartengano alla famiglia che esercita il controllo dell'azienda, ricevono comunque stipendi altissimi?
La situazione che abbiamo descritto prima, con una sola famiglia che detiene il controllo totale di un'impresa con il 50% più uno delle azioni è in realtà molto rara anche in Italia. Le imprese italiane sono in genere controllate da catene di società al cui vertice c'è una holding controllata da una famiglia. Questo sistema si chiama "scatole cinesi" e serve, in sostanza, a risparmiare denaro. Se un famiglia controlla il 51% di una società, che controlla il 51% di un'altra società che a sua volta controlla il 51% di un'altra società, la famiglia può esercitare il controllo dell'ultima azienda possedendo solo una frazione delle sue azioni.
Spesso, poi, questa catena di società è controllata da una serie di partecipazioni incrociate e alleanze con altri gruppi che permettono alla famiglia in questione di detenere anche meno del 51% delle azioni di ognuna di quelle società. Ad esempio una certa famiglia potrebbe avere solo il 20% di una società in un qualsiasi punto della catena, mentre famiglie o gruppi industriali alleati ne detengono il restante 31%. La famiglia in questione avrebbe in mano altrettante partecipazioni strategiche nei gruppi alleati. In questo modo si riescono a controllare grandi gruppi con poche azioni, difendendosi nel contempo da acquisizioni ostili.
Avere poche azioni, però, significa anche avere meno utili quando l'azienda va bene (gli utili sono distribuiti in base al numero di azioni). Le famiglie che guidano le aziende quindi, non sono interessate tanto all'andamento della loro azienda, quanto a mantenerne il controllo. Che significa, ad esempio, la creazione di una rete di potere o la possibilità di sistemare membri della famiglia in posti chiave dell'azienda dove ricevere stipendi altissimi. Per fare questo però c'è bisogno di manager fedeli che, quindi, vengono incentivati non in base alla loro bravura nel portare valore all'azienda, ma in base alla loro fedeltà alla famiglia che la controlla.
Ma attirare manager con queste premesse non è facile, come ha scritto ad esempio Filippo Astone nel suo libro Gli affari di famiglia. Un manager con un solido curriculum rischia molto ad amministrare un'azienda come quelle che abbiamo descritto. Gestire un'azienda che paga magri dividendi o che addirittura rischia di fallire non è un buon biglietto da visita per cercare un altro lavoro. La famiglia alla guida dell'azienda, poi, potrebbe decidere di liberarsi di lui per motivi indipendenti dalla sua bravura nel generare valore e reddito.
Quindi, per incentivare un manager a guidare una di queste aziende familiari e per mantenerlo fedele agli scopi della famiglia che la controlla, c'è bisogno di uno stipendio molto più alto di quello che il manager prenderebbe in un'azienda sana, dove potrebbe guadagnare premi e compensi per aver generato reddito e valore. Quando l'azienda va male, quindi, questo tipo di manager va incentivato ancora di più a restare al suo posto e a non disertare passando alla concorrenza.